Bravo Bernie!

All’epoca era fin troppo facile. Spopolava in televisione il comico inglese Benny Hill (quello delle scenette accelerate, con musichetta strombettata e lui che ogni trenta secondi indirizzava le azioni di un vecchietto pelato a suon di pacche sulla testa) e comunemente lo spettacolo era chiamato in Italia “Bravo Benny”. Quando spuntò sui giornali, sempre più invadente e assiduo, il nome di Bernard Charles Ecclestone, un ometto basso con casco di capelli e occhialetti tondi dall’aspetto abbastanza curioso la battuta veniva naturale. “C’è Bernie, bravo Bernie”.

A sinistra Colin Chapman, padre della Lotus. A destra…lui

Ma sin dall’inizio, e fino alla fine, non ancora scritta, l’attività del signor Ecclestone a tutto può essere assimilata fuorchè ad una commedia. Siamo di fronte, probabilmente e utilizzando criteri esclusivamente commerciali, al più grande manager sportivo di ogni tempo.
Ho una suo biografia, a casa, un massello massiccio di svariate centinaia di pagine. Confesso di non essere riuscito a leggere che le prime quaranta, ma sin dalle prime vicissitudini della vita di questo comunissimo figlio di un capitano di motopescherecci di Ipswich (figlio anche di qualcos’altro, verrebbe da dire) si desume la qualità che per tutta la carriera gli consentirà di avere successo: la capacità di comprare e vendere. Da ragazzino si appassiona, per dire, di motociclismo e automobilismo, e si finanzia comprando e vendendo ricambi di moto. E’ il dopoguerra, tempi duri ma tanta grinta. Diventa più bravo in questa seconda attività che nella pratica sportiva, e questo gli consente di fare il primo gruzzolo e avvicinare il dorato mondo della Formula 1, come manager di piloti.

Ecclestone in confidenza con Putin, e viceversa

Sceglie Stuart Lewis Evans, che nel 1958 muore dopo un incidente al Gran Premio del Marocco. Scioccato abbandona le corse e torna ad arricchirsi con la concessionaria Compton & Ecclestone. Finchè alla fine degli anni ’60 torna a gestire un pilota da corsa, stavolta l’austriaco Jochen Rindt. Va male, malissimo, anche stavolta. Rindt muore alla Parabolica durante le prove del Gran Premio d’Italia del 1970. E’ Bernie a tornare ai box con in mano il casco del suo pilota, e con le lacrime agli occhi. Non lo hanno visto piangere mai più.
Qualche anno dopo acquista la Brabham e in dieci anni la porta dal fondo dello schieramento alla vittoria del titolo mondiale. I passi sono belli decisi, uno dopo l’altro. Ecclestone prende Reutemann, poi addirittura Lauda, come pilota, persuade a sponsorizzarlo la Martini e poi la Parmalat, colossi dell’industria italiana. Convince l’Alfa Romeo a tornare in Formula 1 per fornirgli il motore, poi torna sui suoi passi e rimette a bordo i motori Cosworth, ma la scuderia è già tra le più competitive del mondiale. Con Piquet alla guida e Gordon Murray al tavolo da disegno conquista due titoli mondiali, che basterebbero a soddisfare le brame di vittoria di ogni garagista inglese di Formula 1. Ma Bernie non è mica contento. I garagisti, appunto, quelli che nel disprezzo di Enzo Ferrari costruiscono un telaio e lo equipaggiano con motore Cosworth, cambio

Una delle frequentissime testimonianze dei contatti del nostro con i potenti del mondo

Hewland e le gomme che capitano, quelli che vanno alla ricerca della leggerezza del telaio e del carico aerodinamico ma non sanno mettere insieme un motore, quelli che vanno in giro per i circuiti col camper e dieci meccanici e ogni anno devono cercare uno sponsor per chiudere il budget della stagione seguente, lo eleggono a loro rappresentante. Chapman, Mosley, Mayer, Tyrrell, Williams sono una raccogliticcia ed eterogenea compagnia di casinisti, prima che Ecclestone li raccolga sotto una sigla, la FOCA (Formula One Constructor Association) capace di opporsi alla FIA, la federazione ufficiale, e strappare al maldestro Jean Marie Balestre, presuntuoso e ottuso fascistoide suo avversario nella trattativa, i diritti televisivi della massima categoria automobilistica. Sembra, lo scontro, tenersi solo su questioni tecniche, le minigonne, i motori aspirati, i correttori d’assetto con cui i team inglesi cercano di contrastare la potenza (dei motori, ma non solo) dei “legalisti” Ferrari e Renault. Il boicottaggio del gran premio di Imola dell’82, quello a cui partecipano solo una dozzina di macchine, quello del duello PironiVilleneuve, passato alla storia come l’ultimo del campione canadese, è il culmine dello scontro, ma in realtà Bernie tende a Balestre una trappola. Concede all’interlocutore la rinuncia alle minigonne e l’accettazione dei turbo, ma è un piatto di lenticchie contro la primogenitura dei diritti TV. Da lì a dieci anni Ecclestone, con la sua società che gestisce i rapporti con le televisioni di tutto il mondo, diventerà il padrone della Formula 1. La FOCA fagociterà la FIA, la sua società (FOM, Formula One Management) tratterà anche i premi, i contratti con gli organizzatori, con gli sponsor, con le grandi case automobilistiche interessate ad entrare in griglia. Tutto a suon di dollari.

Bernie e le sue fortunate bambine

Non ho a disposizione i numeri esatti del business: ma negli anni ’70 la Formula 1 è un circus di personaggi abbastanza eccentrici, disorganizzato, disordinato, seguito con molta passione ma con poco senso per gli affari. Nel 2000 è una macchina da soldi, un marchio tra i più famosi del mondo, che incassa contratti miliardari per mostrare le corse in TV, ospitare gran premi, portare una nuova scuderia ai box. Ecclestone tratta con Putin, con gli emiri arabi, porta la Formula 1 in Cina. Gli scalcinati proprietari di scuderie non sono più dei dilettanti allo sbaraglio, ma sono in testa alle classifiche degli uomini più ricchi del mondo. Il paddock è un luogo esclusivo, dove sgomitano per entrare stelle di Hollywood e sportivi famosi.
Non parlo di sport, per una volta. E’ chiaro che “prima era più divertente”. Ma se la Formula 1 adesso impiega decine di migliaia di persone, tutti con stipendi piuttosto importanti, si deve al piccolo Bernie. Poco importa che qualche anno fa abbia dovuto iniziare una lunga lotta giudiziaria con delle banche d’affari, che due mogli lo abbiamo mollato strappandogli costosissimi divorzi, che le due figlie stiano dissipando tanti dei milioni da lui guadagnati in feste e vita da ereditiere. Nel tempo ha anche detto qualche stupidaggine: celebre la sua predilezione per i regimi dittatoriali, che a suo dire funzionano meglio di quelli democratici. E adesso lo hanno anche estromesso dal controllo della Formula 1. Ha dovuto vendere tutto agli americani, che nei pochi anni di gestione della compagnia hanno dimostrato di capirci molto meno di lui.
Ma davvero, poco importa. Se domenica vedremo su un pay tv il gran premio di Spagna, insieme ad altre centinaia di milioni di persone nel mondo, il merito è pressochè tutto del canuto e quasi novantenne Ecclestone.
Un episodio: nel 1983 a Bologna si teneva la premiazione annuale dei Caschi d’Oro di Autosprint. Ero lì, presentava Marino Bartoletti. E ad accompagnare Nelson Piquet per ritirare il premio al campione del mondo c’erano Gordon Murray e il saltellante e loquacissimo Bernie. Per tenerli un po’ più sul palco, gli ospiti erano costretti a cimentarsi in un videogioco, dove raccoglievano dei punti attraverso qualche imprecisata manovra alla tastiera. Marino stava spiegando a Ecclestone le modalità del gioco “You must choose the right option to get more points” “Points? Not pounds?” rispose ridacchiando quel furbacchione. Pounds, appunto. Altro che Bravo Benny.

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David Bianucci

Mi chiamo David Bianucci, e sono nato a Prato nel 1972. Dal 1981 non mi perdo un gran premio di Formula 1. Nel frattempo ho studiato, fatto sport, adesso lavoro come ingegnere meccanico ma la passione non si è mai spenta. Vivo in Veneto con moglie e tre gatti. Non posso più prendermi due ore per andare a vedere le macchine che girano al Mugello, ma questo non frena certo la mia voglia di parlare di corse. Vi aspetto.