Imola, tra spettacolo e nostalgia
“Ma com’è stata la formula 1, di nuovo a Imola? Mah, me la ricordavo più grande, la pista”. Potrebbe essere questa, una delle discussioni più interessanti riguardo al primo e (scommettiamo?) ultimo Gran Premio dell’Emilia Romagna, ed è tutto dire. Il solito dominio di Hamilton e della Mercedes, contrastata solo dallo sfortunato Verstappen, la solita battaglia di centrogruppo da cui spunta furbescamente Ricciardo, la solita Ferraruccia sufficiente nelle mani di Leclerc quasi ultima in quelle di Vettel, stavolta anche sfortunato per una sosta ai box con dieci secondi di troppo.
E allora l’unica ragione di essere svegli durante i sonnolenti giri dell’Autodromo Enzo e Dino Ferrari è stata proprio quella di provare a ricordare che cos’era Imola, un tempo, prima o dopo il terribile 1994, e confrontarla con quello che è venuto fuori domenica scorsa. Per capire cosa è cambiato e cosa, probabilmente, dovrebbe cambiare. E appunto, la prima impressione è che il circuito sia quasi rimpicciolito. Dove un tempo passavano tre macchine affiancate ora ce ne passano a mala pena due, alla Rivazza le due pieghe sono percorse quasi con un’unica traiettoria, la variante del Tamburello e quella Villeneuve sono curve (anche difficili) infilate ben sopra i centocinquanta all’ora. Va bene che non c’è più la Variante Bassa, ma il tempo sul giro è un terrificante 1′ e 15″, quando giusto qualche lustro fa si stava sull’ 1′ e 25″. Non si sorpassa, ovviamente. Non in staccata, semmai col DRS oppure inventandosi traiettorie possibili solo grazie ad un’imbarazzante superiorità nell’utilizzo delle gomme.
Di frenate a ruote fumanti, quelle di Villeneuve e Pironi alla Tosa, di Senna o Mansell non resta che il ricordo. Queste maledette auto-barche lunghe cinque metri e con complessi apparecchi aerodinamici che forse un giorno vedremo comparire su un aereo da caccia, ma mai su una vettura stradale, sono la rovina della Formula 1. Corrono su un binario, permettono di passare sui cordoli senza problemi, sputano sulla macchina che segue una tale vorticità che il disgraziato che è dietro se lo sogna, di avvicinarsi nelle curve veloci.
E così finisce che a Imola, dove generazioni di appassionati hanno assaporato sfide immortali con bolidi entrati nella storia, il Gran Premio somigli ad una gara di pista elettrica, ma con in più le sempre più incomprensibili partecipazioni delle safety car, a causare più polemiche che incertezza.
Per dire, io di Hamilton non so più cosa pensare: le voci di un suo possibile ritiro non influiranno sicuramente sui tanti record che si appresta ad aggiungere al suo albo d’oro. Ma un giorno, neanche troppo lontano, se mi chiedessero (oppure mi chiedessi da solo) “Ma era davvero il più grande di tutti?”, (mi) risponderei “Non lo potremo mai sapere”. Perchè, e magari gli stiamo facendo un’ingiustizia, ha semplicemente corso in un’epoca inconfrontabile con le precedenti, a bordo di un’astronave robotizzata, su piste a prova di errore e dominando una quantità pressochè innumerevole di corse tristissime, come questo ultimo Gran Premio, il più autunnale e malinconico che si sia mai corso sul suolo italiano.
Possibile che nessuno lo capisca a parte gli appassionati con cui condividiamo questi piagnistei?