Didier Pironi perseguitato dalla sua tracotanza. Fino alla morte

C’è una figura quasi unica, nella storia della Formula 1, pure così ricca di personaggi indimenticabili, per la vicenda tragica che gli toccò di vivere, conseguenza di una scelta tanto umana quanto scellerata. Quella figura è Didier Pironi, pilota Ligier, Tyrrell e Ferrari a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 e alter ego di Gilles Villeneuve  con cui intreccerà aspirazioni, sentimenti e destino.
Conviene raccontarla, la storia di Pironi, tenendo per termine di paragone la leggenda di Prometeo, semidio della mitologia greca, che rubando il fuoco agli dei per amore degli uomini fu punito crudelmente da Zeus, legato ad una montagna e sottoposto al supplizio continuo di un’aquila che di giorno gli mangiava il fegato che poi ricresceva durante la notte.
Pironi non era un benefattore dell’umanità, ma il modo in cui la cattiva sorte si accanì contro di lui, ripetutamente, appunto come l’aquila aguzzina di Prometeo, non ha eguali nella storia delle corse.
Didier Pironi nacque a Parigi da una famiglia di origini italiane. Benestante, belloccio, intelligente e capace non ebbe problemi a scalare le serie minori, entrare nel gruppo dei piloti francesi sostenuti dalla Renault (una nidiata di talenti inimitabile comprendente anche Prost e Arnoux) e debuttare in formula 1 alla fine degli anni ’70. Subito veloce, subito a suo agio anche con compagni di squadra un po’ più esperti, tipo Laffite, Didier rubò l’occhio al Drake alla fine del 1980, quando per sostituire Scheckter ed affiancare Villeneuve a Maranello fu scelto proprio questo ventinovenne biondino.

Il famigerato, e tragico, duello tra Pironi e Villeneuve a Imola ’82

In un periodo di transizione tra i campioni della decade precedente (Lauda, Andretti, Hunt, Regazzoni, Reutemann e lo stesso Scheckter) e i nuovi astri Piquet, Jones, Patrese, Prost, scelte migliori non pareva ce ne fossero, effettivamente. Arrivò quindi, al box della Ferrari, nel 1981 questo promettente e ambizioso campioncino, con lo scopo di accompagnare Villeneuve nella rincorsa al titolo (i due parlavano francese e si intesero da subito) e ripetere magari quell’idillio che qualche anno prima aveva permesso a Scheckter e allo stesso canadese di dominare il mondiale, collaborando con successo nell’interesse supremo della scuderia. Iniziò bene, dal punto di vista umano, il rapporto tra Villeneuve e Pironi: il canadese, ormai idolo dei tifosi e molto amato in seno alla squadra, non si tirava indietro quando si trattava di accompagnare l’apprendistato del collega; sognava di ricevere da Pironi lo stesso leale supporto che lui aveva offerto a Scheckter, e comunque ragionava da leader e cercava di mantenere il team fuori da ogni polemica.
Solo che mentre Gilles, pur lottando contro la bizzosa 126 CK, macchina dura da tenere in strada e da tenere insieme, riuscì a cavarne due perle indimenticabili come le vittorie di Monaco e Spagna, Pironi visse una prima stagione pessima, con qualche piazzamento e molti ritiri. Villeneuve lo aiutò, con la stampa e con la squadra, e all’inizio dell’82 i due si presentarono ai nastri di partenza con una macchina competitiva e con aspirazioni ben più fondate. I primi gran premi furono sfortunati, ma il potenziale della C2 si vedeva, non c’erano molte vetture più potenti sulla griglia.
A Imola, quarta gara dell’anno, correvano solo i team legalisti (non gli inglesi, per intendersi, a causa di una guerra regolamentare che coinvolgeva aspetti tecnici ed economici) e la sfida era limitata a Renault e Ferrari. Dopo pochi giri si ritirò Prost, dopo metà gara andò in fiamme il turbo di Arnoux. Rimasero Pironi e Villleneuve, a giocarsi la vittoria, in un tripudio di tifo ferrarista sempre più inebriato dalla certezza di poter assistere alla prima vittoria dell’anno, dopo quasi un’intera stagione di digiuno.
Erano lì, Villeneuve ideale caposquadra, aspirante al titolo mondiale, e Pironi, la sottintesa seconda guida, finalmente in grado di salire il suo primo podio con una vettura del Cavallino, proprio a Imola.
“Slow”, fu indicato su un pannello esposto dai box, “Rallentate”. Villeneuve intese che le posizioni andavano mantenute, e che l’esito del gran premio fosse tacitamente definito. Pironi non intese niente.
Continuò a spingere, a superare, a rischiare. E vinse. Vinse la sua prima gara con la Ferrari. La vinse da traditore, da usurpatore, vittima della sua tracotanza e della sua disperata necessità di autostima. Vittima di una scelta lucida quanto scellerata. Festeggiò con un sorriso amaro, mentre Gilles a malapena salì sul podio per ricevere un piatto d’argento, per poi fuggire nel motorhome e sfogare la sua ira contro il compagno di squadra, l’ex amico, l’ingrato scudiero.

Pironi ferito, ma vivo e cosciente, tra le lamiera della Ferrari dopo l’incidente di Hockenheim

Inizieranno per Pironi i mesi più allucinanti che un pilota può immaginare. Mesi, e poi anni costellati di speranze e di tragedie, di fegati che ricrescono e aquile che arrivano, ogni volta, a imporre la tremenda punizione.
Due settimane dopo, a prove quasi finite con Villeneuve dietro a Pironi nella lista dei tempi, il canadese non rallenta, nemmeno quando davanti a lui si para la lenta sagoma della March di Mass. Gilles lo tampona, decolla, distrugge la macchina e muore tra le lacrime del mondo intero. Pironi che può fare, se non rifiutarsi di correre il Gran Premio e guardarsi intorno, subire tutti quegli sguardi severi, soffrire l’odio irrisolto del dio della velocità col numero 27, che se n’è appena andato?
Il dolore prende una strada, si attenua, si ricomincia a correre, e Pironi è diventato automaticamente la prima guida. Ha una gran macchina, e corre bene. Secondo a Monaco, terzo a Detroit. In Canada è
in pole position, ma alla partenza va in stallo e dall’ultima fila il giovane Paletti lo colpisce in pieno, morendo. Pironi esce dalla macchina, cerca di liberare l’italiano, poi si prodiga per spegnere l’incendio che circonda l’Osella. Lui non lo sa, ma è un avvertimento. Prometeo è già legato alla montagna, e l’aquila è venuta per il momento solo a fargli visita.
Ma la stagione prosegue, ancora, con illusori successi. Didier vince in Olanda e arriva sul podio anche in Gran Bretagna e Francia. Sempre meglio, è in testa al mondiale con le Renault e le Brabham alle prese con gravi problemi di affidabilità, e da poco è affiancato da un altro francese, Patrick Tambay, assunto chiaramente per aiutarlo a conquistare il titolo.

La motonautica, passione letale per il pilota francese

E’ fiducioso, Pironi, troppo felice e confidente per sapere che durante le prove sotto il diluvio, dentro una nube di acqua c’è la Renault di Prost che procede lentamente nel bel mezzo del rettilineo più veloce di Hockenheim. Pironi lo tampona, come Villeneuve due mesi e mezzo prima, la Ferrari decolla fino alla vetta degli alberi, atterra sul muso e si disintegra. Ma il pilota non muore. Ha le gambe distrutte (ogni altro dettaglio non può che risultare macabro), ma nemmeno perde conoscenza. Ha tutto il tempo di soffrire delle ferite, di aver paura che la macchina si incendi, di vedere i colleghi che si fermano e cercano di rassicurarlo, di essere trasportato in elicottero all’ospedale tra dolori lancinanti. E’ l’aquila, è arrivata, per punire il traditore. Le condizioni sono terribili, ma mentre in pochi scommettono sulla possibilità di rivederlo vivo, i migliori specialisti del mondo prima gli salvano la vita, poi gli salvano le gambe, poi dopo mesi di interventi chirurgici e durissima riabilitazione lo rimettono addirittura in piedi. Didier non si è arreso, il fegato di Prometeo ricresce.
Al francese ci vogliono quattro anni di pesantissimi trattamenti per tornare a guidare una macchina di Formula 1. E’ il 1986 quando il parigino sale su una AGS e poi su una Ligier, una macchina vera. Al Paul Ricard i primi quattro giri illudono, di nuovo. Pironi è veloce, quanto Arnoux. E’ un campione che ritorna a sperare. Ma il sogno dura poco. Il tempo di fermarsi dopo poche tornate, con le gambe doloranti, i tempi saliti di secondi e la certezza di non poter più percorrere l’intera distanza di un Gran Premio. Per un pilota, un uomo per cui la competizione e la velocità sono l’essenza stessa della vita, è un colpo durissimo. Di nuovo. Ancora quella maledetta aquila a punire Prometeo col più umiliante dei supplizi.

Il motoscafo di Pironi pochi minuti prima della tragedia

Basterebbe per accettare il verdetto, per mollare tutto, per godersi i soldi e mettere su famiglia. Pironi ci prova, ma dopo pochi mesi la speranza e la velocità tornano ad affacciarsi nella sua vita, sotto forma di un nuovo amore sportivo: la motonautica. Pironi è coinvolto in un progetto per formare una squadra e correre nel campionato off-shore, quello a più alto livello. La passione per le corse in mare c’era già, gliel’aveva trasmessa Villeneuve al quale piaceva armeggiare con barche dotate di motori esageratamente potenti, e Didier non fa altro che assecondarla, felice di tornare alla competizione. E all’inizio, tanto per cambiare, le cose vanno più che bene, visto che arriva qualche vittoria e di nuovo sui giornali compare la sua faccia sorridente cinta con l’alloro del vincitore. Sta anche per diventare padre, visto che la sua compagna Catherine aspetta due gemelli.
Ma l’aquila non ha finito. Durante una gara in Inghilterra il motoscafo di Pironi e dei suoi due compagni di gara si rovescia sull’onda lasciata da una petroliera. L’incidente è terribile, aggravato dal fatto che il francese, per l’impossibilità di stare in piedi durante le faticose traversate, guida da seduto legato allo scafo con delle cinture di sicurezza. In questo modo non c’è speranza.

Gilles e Didier, oggi

E’ un giorno di Agosto del 1987 quando l’aquila strappa definitivamente dal petto di Prometeo la vita e tutti i suoi sogni. Voleva diventare campione e ci è andato vicino, voleva tornare a guidare e ci è mancato poco, voleva vincere con i motoscafi ma l’ha fatto solo per pochi mesi.
Voleva diventare padre, ma non ha potuto vedere nascere i propri figli, nati appena poche settimane dopo l’incidente mortale. La suprema punizione, la vendetta del destino per aver sfidato il dio della velocità.
Ora è tutto finito. I figli di Pironi e Catherine Goux sono grandi e si occupano di corse, come ingegneri. Si chiamano Didier Pironi e Gilles Pironi.
Ora tutto è veramente finito.

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David Bianucci

Mi chiamo David Bianucci, e sono nato a Prato nel 1972. Dal 1981 non mi perdo un gran premio di Formula 1. Nel frattempo ho studiato, fatto sport, adesso lavoro come ingegnere meccanico ma la passione non si è mai spenta. Vivo in Veneto con moglie e tre gatti. Non posso più prendermi due ore per andare a vedere le macchine che girano al Mugello, ma questo non frena certo la mia voglia di parlare di corse. Vi aspetto.